I Critici

Emanuele Severino

Da LA FILOSOFIA ANTICA

IL SENSO DELLA VERITA'

La filosofia nasce grande. I primi passi della sua storia non sono cioè l'incerto preambolo a un più maturo sviluppo del pensiero, ma stabiliscono i tratti fondamentali del suo intero decorso storico. Per decine e decine di millenni l'esistenza dell'uomo - globalmente e in ogni suo singolo aspetto - è guidata dal mito. Il mito non intende essere una invenzione fantastica, bensì la rivelazione del senso essenziale e complessivo del mondo. Anche nella lingua greca il significato più antico della parola mèthos è "parola", "sentenza", "annunzio"; a volte mèthos significa persino "la cosa stessa", "la realtà". Solo in modo derivato e più tardo nella lingua greca mèthos indica la "leggenda", la "favola", la "fola", il "mito".

Ma il mito arcaico è sempre collegato al sacrificio, cioè all'atto col quale l'uomo si conquista il favore degli dèi e delle forze supreme che, secondo la rivelazione del mito, regnano nell'universo. Il sacrificio può essere cruento, oppure del tutto incruento come nelle pratiche ascetiche dello Yoga; ma in ogni caso il suo intento è di identificarsi e di dominare ciò che nel mito appare come la potenza suprema.

Per la prima volta nella storia dell'uomo, i primi pensatori greci escono dall'esistenza guidata dal mito e la guardano in faccia. Nel loro sguardo c'è qualcosa di assolutamente nuovo.

Appare cioè l'idea di un sapere che sia innegabile; e sia innegabile non perchè la società e gli individui abbiano fede in esso, o vivano senza dubitare di esso, ma perchè esso stesso è capace di respingere ogni suo avversario. L'idea di un sapere che non può essere negato nè da uomini, nè da dèi, nè da mutamenti dei tempi e dei costumi. Un sapere assoluto, definitivo, incontrovertibile, necessario, indubitabile.

I primi pensatori hanno chiamato questo sapere con antiche parole della lingua greca - le quali hanno quindi assunto da quel momento un significato inaudito. Queste parole sono: sophia, lògos, alètheia, epistème. Se vogliamo tradurle esse corrispondono rispettivamente a "sapere", "ragione", "verità", "scienza". Ma queste parole ci dicono poco (o troppo) se non le poniamo in relazione a quel significato inaudito.

Quanto alla parola philosophØa ("filosofia"), che però compare nella lingua greca insieme a ciò di cui essa è il nome, essa significa, appunto, alla lettera (philo-sophØa) "aver cura di sapere". Se si accetta l'ipotesi che in soph&Mac178;s, "sapiente" (su cui si costruisce il termine astratto sophØa), risuona, come nell'aggettivo saphès ("chiaro", "manifesto", "evidente", "vero"), il senso di phßos, la "luce", allora "filosofia" significa aver cura per ciò che, stando nella "luce" (al di fuori cioè dell'oscurità in cui stanno invece le cose nascoste - e alètheia, "verità", significa appunto, alla lettera, "il non esser nascosto") non può essere in alcun modo negato. "Filosofia" significa "l'aver cura della verità", dunque - dando anche a quest'ultimo termine il significato inaudito dell'"assolutamente innegabile".

I Greci evocano per primi il significato inaudito - l'"idea", si è detto sopra - della verità. Ciò non vuol dire che essi si accontentino di contemplare questa idea senza preoccuparsi di stabilire quale sia la verità - quali tratti abbia il suo volto. Si vuol dire che per poter affermare quali sono i tratti della verità è necessario che innanzitutto stia dinanzi agli occhi il senso indicato dalla parola "verità"; e i Greci per primi hanno guardato questo senso e si sono messi in cammino per stabilire che cosa può essere detto "verità". Ma già all'inizio di questo cammino la filosofia vede che il mito non è veramente innegabile (non è qualcosa di saphès, come dice Senofane, uno dei primi pensatori greci), ma è soltanto una leggenda in cui si crede. Poichè, d'altra parte, la fede nel mito è la regola secondo la quale sono vissute tutte le civiltà precedenti (e la società stessa in cui la filosofia nasce), la critica filosofica del mito diventa inevitabilmente una critica della società.

LA VERITA' E IL TUTTO

Nei primi pensatori greci l'evocazione del senso inaudito della verità è insieme (e non può non essere) un rivolgersi alla Totalità delle cose. Tuttavia, anche dal punto di vista storico, questa affermazione può essere rovesciata e si può affermare che la filosofia nasce quando, nel VI secolo a.C., i pensatori greci si rivolgono per la prima volta alla Totalità delle cose e questo rivolgersi al Tutto è insieme l'evocazione del senso inaudito della verità. Tentiamo di vedere più da vicino questa implicazione reciproca tra verità e Tutto.

Anche il rivolgersi al Tutto presenta, all'inizio del pensiero filosofico, un senso inaudito.

Nel mito greco, la Teogonia di Esiodo racconta come tutti gli dèi siano stati generati dal Caos originario. Nella lingua greca matura, per esempio quella di Platone, la parola chßos significa "mescolanza", "magma", "disordine". Il contrapposto di ciò che viene indicato dalla parola chßos, così intesa, è il kòsmos ("cosmo", "mondo"). Kòsmos è l'insieme delle cose che è uscito dal disordine del chßos.

Eppure queste due parole hanno un significato più originario. Chßos - limitiamoci per ora a questa parola - significa innanzitutto l'immensità dello spazio originario, l'apertura immensa, cioè non misurabile, illimitata. Tutti gli dèi e tutti i mondi si generano al suo interno. Il chßos è la dimensione più ampia che il mito greco sia riuscito a pensare. Ciò che gli manca, per possedere il significato filosofico del Tutto, è il motivo in base al quale poter escludere che qualcosa si trovi al di fuori di esso. Questo criterio manca anche a tutta la sapienza orientale (comprese le parti più antiche del Vecchio Testamento) che, prima della filosofia, parla del "Tutto".

Se nelle civiltà più antiche il rapporto dell'uomo all'Immenso è più familiare - e forse si può addirittura sostenere che sia lo sfondo costante di ogni pratica quotidiana - , invece noi oggi, nella nostra esistenza quotidiana, non riflettiamo mai sul "Tutto" come tale: ci occupiamo di cose e di ambiti particolari, ed è a cose ed ambiti particolari che si dirige la nostra riflessione: l'ambiente fisico e sociale in cui viviamo, il lavoro, gli svaghi, gli affetti, il mondo che ci si manifesta nel sentimento religioso, il nostro corpo e la successione di piacere e di dolore che in esso avvertiamo.

Eppure queste cose e ogni altra - altri mondi e altri dèi - si trovano insieme in un'unica regione, costituita appunto dalla totalità delle cose: essa contiene il presente, il passato, il futuro, le cose visibili e quelle invisibili, corporee e incorporee, il mondo umano e quello divino, le cose reali e quelle possibili, i sogni, le fantasie, le illusioni e la veglia, il contatto con la realtà, le delusioni; ogni vicenda di mondi e universi, ogni nostra speranza.

Con la nascita della filosofia il pensiero, per la prima volta, attraversa senza lasciarsi distrarre l'infinita ricchezza delle cose: rivolgersi al Tutto vuol dire percorrere l'estremo confine, al di là del quale non esiste niente, e riuscire a scorgere il raccogliersi insieme delle cose più differenti e più antitetiche: il loro raccogliersi in una suprema unità.

L'IDENTITA' DEL DIVERSO

Non è facile rendersi conto di ciò che vi è di straordinariamente grandioso e inaudito in quel rivolgersi della filosofia alla luminosità della verità innegabile, che è insieme uno scorgere l'estremo confine del Tutto e il niente che vi è oltre esso (ossia il non esservi alcunchè oltre di esso). Ma vi è un terzo tratto fondamentale - ed essenzialmente legato agli altri due - del volto che la filosofia mostra fin dall'inizio.

Nell'esistenza guidata dal mito è posta in primo piano la differenza, l'opposizione, l'antitesi, l'incompatibilità e irriducibilità, l'ostilità e estraneità che esistono tra le cose. Anche nel racconto di Esiodo l'immensità del chßos, da cui si generano tutti gli dèi e tutte le fasi del mondo, rimane ben presto sullo sfondo e l'attenzione è attratta dal modo in cui le vicende e le lotte tra i divini abbiano portato alla configurazione attuale del mondo. Nel dissidio tra gli dèi si rispecchia il dissidio che esiste tra gli uomini. L'esistenza mitica, indubbiamente, non interpreta l'universo come un pulviscolo di parti che si urtano e si affrontano tra loro, ma vede delle unità che raccolgono in sè molte cose differenti e anche tra loro contrastanti. La tribù o il clan familiare sono esempi di tale unità. Una tribù è un insieme di individui diversi, di diverse abitazioni, di attrezzi, animali, depositi di cibo, luoghi abitati e frequentati, comportamenti ed eventi molto diversi tra loro. La tribù è l'unità di questo insieme molto diversificato di cose. Ma questa unità è sempre vissuta dai suoi membri umani come contrapposta ad altre unità: le altre tribù più o meno nemiche (e i loro dèi), che sono sentite soprattutto come elementi estranei e inassimilabili. La tribù, e ogni altra forma di unità presente nell'esistenza mitica, è cioè una unificazione parziale delle cose, e il senso stesso di tale unificazione è ambiguo e differenziato.

Ma la filosofia può guardare sino agli estremi confini del Tutto, perchè se, attraversando la verità smisurata delle cose, non si lascia distrarre e catturare da nessuna di esse, tuttavia essa vede che ogni cosa, per quanto diversa dalle altre, ha tuttavia in comune con ogni altra il suo essere una abitatrice del Tutto. Le cose non sono cioè soltanto diverse tra loro, ma anche identiche: ognuna è una abitatrice del Tutto, qualcosa cioè che si mantiene, sia pure in modi diversi, all'interno del Tutto. Ciò vuol dire che la totalità delle cose può mostrarsi alla filosofia solo in quanto, insieme, mostra il tratto identico che ogni cosa, in quanto abitatrice del Tutto, ha in comune con ogni altra cosa, per quanto diversa. Se questa identità delle cose diverse non si mostrasse, le cose diverse non potrebbero mostrarsi come "totalità delle cose": di volta in volta si mostrerebbe questa o quella parte del Tutto, ma non il Tutto che in sè le tiene raccolte.

Eraclito dice appunto: "Tutte le cose sono uno". Sono cioè l'identità in cui restano unificate tutte le loro differenze: l'identità del diverso.

Queste pagine sono tratte dal volume La filosofia antica, Rizzoli, Milano, 1984.
Per la cortese autorizzazione di Emanuele Severino e dell'Editore Rizzoli il ringraziamento del curatore e degli organizzatori della mostra Petros e i Presocratici svoltasi al Museo delle Arti Palazzo Bandera a Busto Arsizio il cui catalogo è pubblicato dalla Edi.Artes.

 


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